Durante la guerra, che senso ha?
Siamo ancora impantanati nelle paludi della guerra. In questa situazione che senso ha il lavoro nella scuola e nell'educazione? Questo chiedeva un'insegnante durante un nostro incontro.
Il nostro lavoro, ora
Da quando è iniziata l’invasione della Russia in Ucraina mi rimbomba dentro la domanda di un’insegnante che durante un incontro ha chiesto:
se dopo decenni di scuola pubblica, di educazione, di istruzione, siamo ancora qui a subire la guerra, che senso ha il nostro lavoro?
Durante quell’incontro non sono riuscito a pensare bene. Ho farfugliato qualcosa, ma quella domanda ha continuato a scavare. Come spesso fanno le domande intelligenti, quelle che ti mettono in discussione e ti inquietano.
Non una risposta, ma un percorso
Non ho trovato la risposta ma una pista, quella sì. Per iniziare a camminare, almeno, lungo la via d’uscita da una situazione opprimente. Oltre alle macerie, ai massacri, la guerra produce insensibilità e impotenza, il voler rinchiudersi e non voler vedere. Una cecità acquisita che si diffonde nella società. Che ci fa vivere tutto come irreparabile, ineluttabile. Anche quando non è così.
Che differenza c’è tra un bambino ucraino e uno russo?
Nelle nostre aule arrivano alunni ucraini, già prima ne ospitavamo di russi. Che differenza c’è tra questi alunni e quelli italiani?
Io non la vedo. Non riesco proprio a vederla.
Dobbiamo rassegnarci all’impotenza? Forse no.
Qualcosa di piccolo e importante ognuno lo può fare. Perché le piccole azioni si propagano nel mondo, e restano, come l’erba che ricresce dopo che Attila è passato.
Possiamo aiutare il gruppo a vedere meglio
Noi educatori, insegnanti, possiamo aiutare tutto il gruppo a vedere meglio.
Non a indicare la strada, ma a sviluppare la capacità di vedere del gruppo. Quello sì, lo possiamo fare. Qualcuno la chiama mente collettiva, qualcun altro cervello sociale.
Ogni gruppo ha una sua capacità di vedere insieme e la può sviluppare. È la stessa capacità che ha uno stormo di migratori quando parte dall’Antartide e si dirige verso il polo opposto. Una destinazione lontana migliaia di chilometri ma, ogni volta, lo stormo arriva a destinazione.
Il singolo componente del gruppo non sa dove sta andando, ma il gruppo lo sa.
Ogni volta che c’è un problema possiamo scegliere
Ogni volta che in classe c’è un problema, un conflitto, un’emergenza, un accidenti qualsiasi, possiamo scegliere: se limitarci a guardare, a giudicare il piccolo caso, imprecare, oppure alzare gli occhi e cercare qual è il prossimo passo che ci conduce, tutti insieme, verso la nostra destinazione. Che è quella del disinnescare i conflitti, non di alimentarli. Questo è quel che possiamo fare. È poco, certo, ma decisivo.
Siamo a un crocevia. L’individuo da solo non può fare niente. Insieme possiamo fare tanto.
A partire dalle piccole azioni quotidiane, così lontane dai campi di battaglia, ma così importanti per far smettere questa guerra e impedire quelle future.
Una piccola goccia che si propaga ogni volta che un alunno aiutato dal gruppo a fare un piccolo passo per uscire dalla sua difficoltà.
Sono gocce che si propagano. Piccoli passi che ci permettono di trovare un senso, quando un senso non c’è.
Mauro
Ps
Della classe come gruppo, del cervello sociale in azione in ogni classe, ne parleremo col prof. Angelo Gemignani (Università di Pisa) il 9 ottobre a Pisa, all’Internet Festival, in un evento gratuito che sarà in presenza e online. È necessario iscriversi qui.